Lettera dei Vescovi di Treviso e Vittorio Veneto
Lettera dei Vescovi di Treviso e Vittorio Veneto
ai cristiani e agli uomini e donne di buona volontà delle loro diocesi
Fratelli e sorelle carissimi,
già da qualche anno al territorio delle nostre due diocesi, come del resto a tutto il nostro Paese, è chiesto di offrire accoglienza ad un certo numero di “migranti forzati”, tra i quali vi sono richiedenti asilo, rifugiati e migranti economici, costretti (pagando ed indebitandosi) a partire, in particolare, dalle coste libiche. Ad oggi, in provincia di Treviso, sono presenti circa 900 migranti, arrivati sia nel 2014 che nel 2015: in media, circa 10 persone per comune, uno ogni mille abitanti.
Recentemente l’arrivo di migranti ha dato luogo a qualche episodio di particolare tensione sociale, anche a causa di scelte improvvide per la loro sistemazione. Abbiamo voluto attendere che si attenuasse un certo clima surriscaldato, favorito da un’enfatizzazione dei fatti tipica dei mezzi di comunicazione. Vorremmo offrire ai cristiani, e a quanti credono nel valore della solidarietà, alcune considerazioni pacate e, soprattutto, ispirate a ciò che orienta la vita dei credenti.
Rileviamo anzitutto che, se a livello nazionale ed europeo la gestione dei flussi di migranti appare priva di una gestione sufficientemente pensata e debitamente organizzata, a livello di responsabili regionali e comunali si mescolano, alla oggettiva difficoltà di far fronte a richieste improvvisate di accoglienza, alcune componenti ideologiche; queste sembrano impedire di cogliere la dimensione drammatica di tante situazioni umane. Il fenomeno migratorio è senza dubbio di vaste proporzioni, ha radici complesse (che “i grandi” non mostrano di saper o voler esaminare con coraggio), domanda soluzioni impegnative.
Come Chiesa noi vogliamo essere attenti osservatori della realtà, non condizionati da letture preconcette e frettolose di quanto sta avvenendo; e vogliamo cogliere soprattutto il “costo umano”, per chi arriva e per chi accoglie, di questi eventi. Desideriamo, nei limiti delle nostre possibilità, aiutare a dare risposte che partano dalla considerazione della dignità e della situazione drammatica di tante persone. Vorremmo che preclusioni di principio, atteggiamenti di parte dettati dall’appartenenza politica, come pure l’accento posto solo sul “disturbo” che queste persone ci arrecano, non ci togliessero la libertà interiore di pensare e agire secondo alcuni criteri irrinunciabili per i cristiani. Ne segnaliamo alcuni.
Anzitutto il rispetto della realtà. Questo significa riconoscere che queste persone fuggono dalle loro terre a causa di situazioni drammatiche e invivibili, spesso ben più insostenibili di quelle che hanno spinto nel passato tanti nostri conterranei ad emigrare in altri Paesi. Si tratta in molti casi, come sopra accennato, di migranti forzati, di persone che cercano sopravvivenza prima ancora che dignità; molti di loro sono segnati da vicende terribili, da abusi, da storie di violenza e di morte; hanno il cuore sanguinante e il volto rigato di lacrime. Chi ha occasione di ascoltare personalmente qualcuno di loro rimane senza parole.
Che cosa viene chiesto a noi cristiani? La nostra terra, che si connota nell’opinione comune come regione dal cattolicesimo ben radicato, viene dipinta in questi giorni – anche a causa alle frettolose semplificazioni dei media – come terra di inospitalità, di durezza, di egoismo. Vorremmo proprio che non fosse così. Una certa integrazione con molti immigrati fa ormai parte della nostra storia recente.
Sappiamo, del resto, che non mancano le persone che si prodigano con generosità e dedizione verso questi fratelli disperati che stanno giungendo tra noi: lo fanno senza clamore e senza richiedere niente in contraccambio, sfidando anche – purtroppo – l’ostilità di alcuni. Li ringraziamo di cuore. Si dice che vi sia chi specula sull’accoglienza: è possibile; ma ci dispiace che questo giudizio talora sia espresso indiscriminatamente su tutti, non esclusa la Caritas. Non vorremmo che fosse un modo ignobile di cercare scuse alla propria grettezza.
Come comunità cristiane non dobbiamo rinunciare a fare la nostra parte, per quello che possiamo, senza rifugiarci dietro la vastità del fenomeno e la sua infelice gestione “a livello alto”. Abbiamo cercato strutture, mezzi, persone; invitiamo al dialogo, alla ricerca comune di soluzioni, alla solidarietà. Del resto ci sentiamo interpellati da domande non eludibili. Sono le domande che risuonano nella Bibbia: «Dov’è Abele, tuo fratello?» (Genesi 4,9); «chi è mio prossimo?» (Luca 10,29); «A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha le opere?» (Lett. di Giacomo 2,14)
Sentiamo emergere più che mai l’interrogativo su che cosa significa, in queste precise circostanze, essere cristiani. Lo siamo davvero? Lo siamo oggi di fronte a questi “scarti” dell’umanità? Lo siamo nella maniera che ci è richiesta dal Vangelo o secondo un cristianesimo accomodante che ci siamo rimodellati sulle nostre ideologie o sulle nostre chiusure? Forse questo è il momento di verificare se abbiamo “il coraggio del Vangelo”, se l’essere discepoli di Gesù è un’esperienza che solo ci sfiora o che realmente ci penetra.
Dobbiamo confessare che rimaniamo sconcertati di fronte alla deformazione di un cristianesimo professato a gran voce, e magari “difeso” con decisione nelle sue tradizioni e nei suoi simboli, ma svuotato dell’attenzione ai poveri, agli ultimi: dunque svuotato del Vangelo, dunque svuotato di Cristo. I poveri, ci ripete papa Francesco, sono «la carne sofferente di Cristo».
Non vogliamo credere che l’accoglienza e l’integrazione, per quanto impegnative, siano del tutto impossibili. Esse chiedono però il coinvolgimento di tutti: istituzioni, amministrazioni locali, privato sociale, associazioni, e certamente anche le comunità cristiane.
Vorremmo che si potessero perseguire scelte che nascano, nello stesso tempo, dall’intelligenza e dal cuore; vorremmo che si mettesse in atto una progettualità che preveda una accoglienza diffusa nel territorio.
Del resto le nostre diocesi, attraverso la Caritas ed in collaborazione con altre realtà del privato sociale, stanno sperimentando questo modello, il quale sta offrendo buoni risultati e mostra una sua efficacia.
E se proprio ci ritroviamo a constatare la precarietà delle nostre risposte a questa drammatica emergenza, non rifugiamoci nell’indifferenza, non rispondiamo come Caino: «Sono forse io il custode di mio fratello?” (Genesi 4,9). Almeno lasciamo spazio alla tristezza per non riuscire a fare quanto vorremmo, almeno solidarizziamo con l’amarezza di chi sperimenta il rifiuto di essere accolto, almeno piangiamo. Nell’omelia della Messa di Lampedusa, papa Francesco ha chiesto cinque volte: «Chi di noi ha pianto»? E in Evangelii gaudium ha scritto: «Quasi senza accorgercene, diventiamo incapaci di provare compassione dinanzi al grido di dolore degli altri, non piangiamo più davanti al dramma degli altri né ci interessa curarci di loro, come se tutto fosse una responsabilità a noi estranea che non ci compete» (n. 54).
Il Signore ci renda “credenti credibili”, uomini e donne di solidarietà di pace, costruttori di un’umanità nuova. Vi accompagnano la nostra umile preghiera e il nostro affetto.
29 Luglio 2015
Gianfranco Agostino Gardin e Corrado Pizziolo